Un caffè con Mari #1

Un caffè con Mari by waxmore

Sono tante le domande che mi sono state fatte negli ultimi anni da studenti universitari ai quali ho insegnato, da figli e figlie di amici e da compagni di università di mia figlia.

Ma la prima è sempre la stessa: "dove hai studiato antropologia?"

Non voglio suggerire il mio percorso accademico, che non è stato né lineare né, apparentemente, coerente. Ho conseguito lauree, master, corsi di perfezionamento, DEA e dottorato in vari Paesi, cercando sempre correnti teoriche e metodologiche che non privilegiassero solamente la ricerca accademica ma dessero valore alla ricerca-intervento.

Ad un lavoro sul terreno che portasse a confrontarsi con il mondo "altro", spesso indigena, e il mondo accademico, ma anche a trovare possibili soluzioni condivise ai problemi che emergevano.

Ho conosciuto l'antropologia per caso, con Vittorio Lanternari all'Università La Sapienza di Roma, dove mi ero iscritta a Sociologia mentre studiavo all'Accademia di Costume e Moda. Erano la fine degli anni '70 e inizio degli '80 e ancora non esisteva in Italia una vera e propria facoltà di antropologia ma degli "indirizzi" che si potevano prendere in Sociologia o in Lettere.

Il primo esame con Lanternari mi aprì un mondo, mi affascinai e scoprì che era quello che volevo studiare, così cambiai piano di studi da "cinema" ad "antropologia".

Ma è stato a Città del Messico, alla ENAH (Escuela Nacional de Antropologia e Historia), dove mi sono iscritta a Etnologia, che ho trovato l'idea dell'antropologo e l'ho da subito fatto mia!

In uno dei primi giorni di lezione, il docente di antropologia economica ci chiese come mai avevamo scelto di studiare etnologia e, senza convinzione rispetto alle nostre risposte e, diciamolo, ridendo un po' dall'esperienza di tanti anni di insegnamento, ci guardò bene e, lapidario disse: "chi si iscrive a psicologia è perché ha problemi con se stesso, chi si iscrive a sociologia è perché ha problemi con il mondo che lo circonda, chi si avvicina all'etnologia è perché ha problemi con se stesso e con il mondo e quindi...cerca di risolverli qui".

Eravamo una classe di 15 persone, molte delle quali provenivano come me da altre facoltà e indirizzi: c'era chi aveva studiato cinema, chi storia, chi biologia e chi danza. Un gruppo eterogeneo di studenti non giovanissimi ma motivati che cercavano risposte a tante domande, pensando che l'antropologia potesse illuminare il perché delle lotte indigene, della povertà nei villaggi, dell'accesso alle cure mediche, il mondo di guaritori e dei Mara'kame huicholes.

Si andava tutti i giorni a scuola, con esami scritti e orali ogni tre mesi su materie che spaziavano dalla linguistica, all'antropologia fisica, all'etnografia, alla metodologia della ricerca e dal secondo anno di corso avevamo l'obbligo di almeno 40 giorni annuali di lavoro sul terreno -ovviamente supportati dalla ENAH- condizione essenziale per poi presentare la tesi finale. Consigliato per tutti anche un percorso di psicoterapia, proprio per evitare di portare le proprie inquietudini e problematiche nel lavoro.

Mi sono da subito dedicata al mondo della malattia/salute/cura e anche se da molti anni lavoro in Africa, nasco come mayista, come esperta dei sistemi terapeutici indigeni maya.

Dopo la laurea in Etnologia alla ENAH e, seguendo la traiettoria consigliata dai docenti, prima di continuare gli studi ho partecipato a molte ricerche in Messico e Guatemala, ho insegnato all'università e pubblicato alcuni articoli.

Quindi dopo un master all'EHESS mi sono specializzata in antropologia medica e salute internazionale a Tarragona alla URV dove sto ultimando il dottorato.

Ho sempre pensato impossibile -e continuo a pensarlo- non coinvolgere i cosiddetti informanti in un processo di analisi del contesto e di ricerca di soluzioni e quindi ho sempre cercato interlocutori (università, docenti, collaborazioni professionali) che credessero e potessero sostenere la ricerca di intervento partecipativa, come è stato con il mio lavoro per Medici Senza Frontiere.

Questo mio percorso accademico profondamente arricchente, anche se costellato da intralci burocratici per riuscire a validare i miei titoli di studio ogni volta che cambiavo Università, mi ha insegnato che l'antropologia può anche essere un viaggio attraverso territori sconosciuti, percorsi misteriosi attraverso i quali condurre chi ci ascolta, chi ci legge, mostrando i fili dell'osservazione partecipante, delle storie, dei racconti e delle vite di chi osserva e di chi é osservato, di chi parla e di chi ascolta, cercando di ricostruire il mondo degli altri passando anche attraverso noi stessi.


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